Menu

Con “La linea verticale” la sanità italiana diventa una serie Tv

15/02/2018

Con “La linea verticale” la sanità italiana diventa una serie Tv

«Come in quasi tutte le realtà professionali di questo Paese, anche in un ospedale la rabbia viene scaricata sempre verticalmente, verso il basso, e mai orizzontalmente, o verso l’alto».

Luigi, interpretato da Valerio Mastrandrea, impiega solo due puntate a spiegare quel che sembra il significato del nome della serie “La linea verticale” – in onda dallo scorso 13 gennaio su RaiTre – che lo vede protagonista.

Poche parole che tratteggiano bene non solo lo spirito degli episodi che lo spettatore andrà a guardare di lì in avanti, ma anche l’ambiente non sempre facile in cui si ritrovano a vivere migliaia e migliaia di medici, infermieri, inservienti e pazienti. In realtà poi si scopre che la linea verticale della rabbia è solo uno dei tanti significati – e nemmeno il principale – che l’autore e regista Mattia Torre ha dato al concetto di “verticalità” nella sua storia: «Il significato più importante – dice – è quello dell’importanza di rimanere in piedi, aggrappati alla vita, rimanere in verticale in quanto vivi».

«Orizzontale sei morto – dice uno dei personaggi verso la fine della serie – verticale sei vivo».

La serie è stata, per l’appunto, scritta e diretta da Mattia Torre, già padre di Boris (insieme a Luca Vendruscolo e Giacomo Ciarrapico), e percorre la vita quotidiana del reparto di urologia oncologica di un ospedale italiano, affrontando vicende molto realistiche da un punto di vista clinico e presentando, pure in un contesto spesso doloroso e tragico, la malattia come occasione di crescita, di apprendimento e persino di riscatto. Raccontata dal punto di vista dei pazienti, l’intera vicenda si svolge all’interno del reparto, che diventa un microcosmo fuori dal mondo, che ha regole e gerarchie proprie con rapporti di forza che vengono messi alla prova ogni giorno.

«“La linea verticale” nasce da un’esperienza autobiografica – spiega Torre -, ma più che dall’esigenza di raccontare una vicenda personale, il desiderio è stato di raccontare, nell’Italia di oggi, un reparto oncologico di un ospedale pubblico di assoluta eccellenza, capitanato da un chirurgo che ribalta il cliché del primario barone arrogante e scollato dalla realtà, e che anzi rappresenta, per gentilezza, generosità e amore verso il proprio mestiere, l’idea di un’altra Italia possibile».

Protagonista – e alter ego di Torre – è Luigi. Conosciamo il suo personaggio a ridosso del ricovero per cancro al rene e lo accompagniamo fino alla fine della sua degenza. Ovvero da quando lo stesso Luigi nota sul suo braccio posarsi una zanzara che non lo punge (il suo compagno di stanza, Ahmed, gli spiega che le zanzare non succhiano il sangue di un malato imbottito di farmaci), fino al momento in cui capisce di essere guarito proprio grazie alla puntura di una zanzara. Il percorso di Luigi è, ovviamente, complesso come quello di qualsiasi malato di cancro, ma non per questo nella serie (e nell’esperienza vera di Torre) mancano i momenti divertenti, ironici e – insomma – belli. Oltre lui, infatti, sono i suoi “compagni di viaggio” ad essere i veri protagonisti della storia: un iraniano dalle convinzioni radicali, un ristoratore che sa tutto di medicina, un prete in crisi, un intellettuale taciturno, decine di anziani «cattivi perché in cattività».

«Il cancro mi ha salvato la vita», dice ancora Torre, il quale spiega che anche per lui è valso il detto “quel che non ti uccide, ti rafforza”. Torre e Luigi escono dall’ospedale in linea verticale (e non orizzontale, da morti) e vedono la vita in un modo diverso, migliore, curati nel corpo e nell’anima.

«L’ospedale è sempre identico, eppure muta sempre

«Cambiano i pazienti, fanno i turni medici e infermieri, vive di gioie, di dolori lancinanti, ma anche di grande (e talvolta involontaria) comicità; e di amicizie che poi durano per sempre. La vita, la morte, la sofferenza, la malattia: tutto viene sistematizzato in una routine a cui ci si abitua presto, e che pure rappresenta una formidabile esperienza umana».

Da “La linea verticale” emerge una visione positiva del nostro Servizio sanitario pubblico. «Sono stato curato in una struttura pubblica d’eccellenza e non mi è stato chiesto neanche un euro. Per questo ho pensato che questo pezzo di Paese, questo pezzo buono, andava raccontato. Siamo abituati a sentire rappresentata sempre una parte della sanità, quella cattiva, ma esiste anche altro. Questo è uno dei motivi principali per cui ho deciso di scrivere questa storia».